Abbado e la raffinatezza del suo «Flauto magico»
A Reggio con la regia del figlio Daniele
Corriere della sera 22 abril 2005
Abbado e la raffinatezza del suo «Flauto magico»
REGGIO EMILIA – Rose e fiori per la prima volta insieme degli Abbado, padre Claudio e figlio Daniele, in una produzione d’opera: un Flauto magico in scena al Valli di Reggio Emilia, che segna curiosamente il debutto nel titolo dell’Abbado meno giovane, poiché Daniele una regia della tarda opera di Mozart l’aveva già firmata, e pure di qualità (con le scene fiabesche di Lele Luzzati). La figura puntata del «Dreimalige Accord» con cui inizia l’Overtüre è eseguita così «stretta» e così rapido il tema del fugato che segue, che si comprende da subito in quale direzione vada la lettura di Abbado senior. Sonorità secche, compatte, elettriche; tempi guizzanti. Che diamine, la Zauberflöte è un Singspiel; e c’è pure, grazie anche alla duttilità della Mahler Chamber Orchestra, la freschezza, il senso del giocoso, la leggerezza, lo stupore del gratuito. Tutto il primo atto segue questa falsariga. Poi, si sa, entrano in ballo il solenne, lo ieratico, lo stile «alto» dell’opera seria, il corale e gli stilemi del sacro. Ma non si corre alcun rischio «ideologico». Abbado non fa il filologo: segue e asseconda gli stili del titolo più eclettico di Mozart. Persino nel volto, rivive quelle emozioni con l’intensità di un ragazzo ma con l’esperienza dell’artista nella piena maturità. Ne sortisce una Zauberflöte stupenda.
Tra animali e mostri di cartapesta, burattini e silhouette, macchine barocche e apparati simbolici, lo spettacolo di Abbado junior non difetta certo di idee. Ve ne sono eccome, fors’anche più del necessario: non ne emerge, tuttavia, una chiave interpretativa unitaria. Quando si attesta sui registri del favolistico, del fantastico e del giocoso, lo spettacolo tocca i suoi vertici, anche perché è realizzato con sicura mano artigianale.
Appassiona meno quando si ingarbuglia nel tentativo di significare per via simbolica i tratti esoterici e filosofici; in tali frangenti perde peraltro qualcosa in termini di ritmo teatrale, che diviene meno fluido. Peccato poi l’errore nel finale, quando tutti, vincitori e vinti, si abbracciano festanti: la scena ha il sapore del «volemose bene» ed è in ultima analisi moralistica. Averne, comunque, di spettacoli così, e così ben recitati.
Vinta infine la scommessa sul cast. Sono quasi tutti giovani e bravi, vocalmente non meno che scenicamente. E per una Regina della notte (Ingrid Kaiserfeld) che canta meglio la seconda aria della prima (un classico), c’è un Papageno elettrizzante (Nicola Ulivieri) che domina la scena e va oltre le più rosee aspettative.
Applausi alla virginale Pamina di Rachel Harnisch e al pimpante Tamino di Christoph Strehl; allo statuario Sarastro di Matti Salminen e al virile, spigliato Monostatos di Kurt Azesberger. Bravi, bravissimi tutti, Damen e Knäbchen inclusi. Il coro di Baden-Baden talora si fa un po’ trascinare ma è poca cosa nel contesto di un’esecuzione da ricordare a lungo.
Enrico Girardi
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